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LE “NUOVE FAMIGLIE”: UNIONI CIVILI E CONVIVENZE DI FATTO

Che cosa cambia per le coppie italiane dopo l’introduzione della Legge n. 76 del 2016, meglio nota come Legge Cirinnà? Quest’ultima è responsabile di una vera e propria rivoluzione del diritto di famiglia e delle relazioni giuridiche di coppia, attuata nel solco delle direttive tracciate dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale. In questa seconda pubblicazione la rubrica “E’ bene sapere che” riassume le opzioni per le coppie italiane che non ricorrono al matrimonio. L’articolo analizza le c.d. “nuove famiglie”, evidenziandone differenze e tratti unificanti.

Le nuove famiglie: costituzione, diritti e doveri, rapporti personali e patrimoniali, filiazione, successioni, scioglimento, e tutela penale.

A cura di: Avv. Claudia Ruffilli

Sommario: 1. Introduzione: uno sguardo d’insieme – 2. Le Unioni Civili – 3. Le convivenze di fatto – 4. Problematiche connesse alla fine della convivenza – 5. Il contratto di convivenza – 6. Le nuove famiglie e la tutela contro i maltrattamenti

  1. Introduzione: uno sguardo d’insieme

La nostra costituzione (art. 2 Cost.) riconosce la famiglia come la prima formazione sociale nella quale si esplica la personalità dell’individuo, unito ad altre persone da un legame di natura coniugale, parentale o di affinità caratterizzato dalla esclusività, stabilità e responsabilità. Sebbene sia rimasta la formazione sociale di maggiore importanza, nel corso degli ultimi anni il concetto di famiglia è mutato a tal punto tale da ingenerare il fondato dubbio se esistesse un’unica tipologia di famiglia oppure se fosse più corretto riconoscere una pluralità di “famiglie”, a seconda dei tratti caratterizzanti.

E’ pacifico che, nella civiltà moderna, occorra fare riferimento a modelli famigliari differenti e differenziati quanto a disciplina.

Abbiamo, così, una primigenia forma di famiglia, disciplinata dagli artt. 29-31 Cost.: dagli stessi emerge la necessità di tutelare la famiglia “legittima”, intesa come società naturale fondata sul matrimonio, individuando i diritti ed i doveri cui sono tenuti i coniugi, in situazione di uguaglianza morale e giuridica, sia l’un l’altro che nei confronti dei figli. Elemento fondamentale della formazione sociale ex artt. 29-31 Cost., è la celebrazione del matrimonio, atto formale dal quale nasce il rapporto di comunione spirituale e materiale, implicante fra le altre cose gli obblighi di cura e solidarietà tra i coniugi.

A questa tipologia di famiglia, nel senso più tradizionale del termine (ed unica tipologia riconosciuta fino a pochi decenni addietro) se ne affianca certamente un’altra: la c.d. famiglia di fatto: si tratta, nello specifico di tutte le situazioni di convivenza di fatto, detta anche convivenza more uxorio (letteralmente “a modo di moglie”, espressione utilizzata per indicare la condizione di due persone che convivono stabilmente senza aver contratto matrimonio). La convivenza di fatto è stata a lungo riconosciuta unicamente dalla cultura giurisprudenziale, restando priva di disciplina normativa; si veda qui la definizione di famiglia di fatto, fornita dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 1041/1966) come “consuetudine di vita comune fra due persone di sesso diverso, che abbia il requisito subiettivo del trattamento reciproco delle persone analogo, per contenuto e forma, a quello normalmente nascente dal vincolo coniugale e che abbia, altresì, il requisito oggettivo della notorietà esterna del rapporto stesso quale rapporto coniugale, inteso non in senso assoluto, ma in relazione alle condizioni sociali ed al cerchio di relazioni dei conviventi, anche se sempre con un certo carattere di stabilità”. E’ fuori di dubbio che si tratti di una realtà diversa da quella famiglia che la Carta Costituzionale definisce “legittima”, ma nella quale due soggetti decidono di condividere la vita di coppia in modo stabile e continuativo, e di assumere degli obblighi, alla stregua di un rapporto fondato sul matrimonio ma senza che fra di essi sia intercorso tale atto.

A queste due formazioni sociali  -famiglia naturale e famiglia di fatto- se ne affianca certamente una terza: l’unione civile tra persone dello stesso sesso. Anch’essa, fino a pochi anni fa, veniva riconosciuta dal giudice delle leggi, ma non ancora formalizzata in una norma; la stessa Corte Costituzionale ha sollecitato l’intervento legislativo in materia, ritenendolo un passaggio dovuto, al fine di approntare una disciplina che fosse in linea con quella degli altri Stati europei. Nella nota sentenza del 15 aprile 2010 n. 138 C. Cost., che costituisce una pietra miliare sul punto, si leggeva: “nella nozione di formazione sociale, di cui all’art. 2 Cost., è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.

Nel 2016, in ossequio alle norme sovranazionali in materia di famiglia (soprattutto le norme della CEDU), a seguito di un complesso ed articolato percorso parlamentare è stata finalmente approvata la L. 76/2016, nota come la Legge Cirinnà, dal nome della Senatrice che ha lottato per la sua approvazione; la Legge ha fornito una regolamentazione giuridica delle convivenze di fatto nonchè delle Unioni Civili. La norma consta di un unico articolo, suddiviso in 69 commi. Eccone di seguito i punti salienti:

1. I commi 1 e 2 dell’art. 1, descrivono l’unione civile come la formazione sociale costituita da due persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.

2. Il comma 36 chiarisce, invece, che si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni (di sesso diverso) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (l’accertamento di tali stabili convivenze avviene mediante una dichiarazione anagrafica).

3. Il comma 50 prevede che i conviventi di fatto possano, inoltre, disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.

Per riassumere, in tema di convivenze, si distinguono le differenti tipologie che trovano oggi considerazione giuridica:

  •  le convivenze di fatto, o more uxorio, ad oggi regolamentate dalla l. 76/2016, sottoposte a riconoscimento anagrafico;
  •  fra queste, le convivenze “rafforzate”, le quali si caratterizzano ulteriormente per avere i partner stipulato un contratto di convivenza;
  •  le convivenze “libere” o non regolamentate in quanto non sottoposte a riconoscimento anagrafico, alle quali non è possibile applicare la legge 76/2016 ma unicamente le soluzioni giurisprudenziali, nonché gli istituti di carattere generale.

Dunque, di seguito elenchiamo le tipologie di “famiglie” previste dal nostro ordinamento giuridico; sono cinque, derivanti da:

  1. Matrimonio religioso (fra persone di sesso diverso): ovviamente non ci si riferisce al matrimonio contratto con rito esclusivamente religioso (senza trascrizione nel registro dello stato civile), il quale non ha alcuna rilevanza nell’ordinamento italiano, bensì al matrimonio contratto con rito religioso, con contestuale attribuzione degli effetti civili, (c.d. matrimonio concordatario), che invece assume effetti giuridicamente rilevanti nell’ordinamento italiano tramite trascrizione del matrimonio religioso nei registri dello Stato Civile.
  2. Matrimonio civile (fra persone di sesso diverso), celebrato con rito civile dall’Ufficiale dello Stato (Sindaco o suo delegato).
  3. Unione Civile (fra persone dello stesso sesso); il celebrante è il sindaco, o altro ufficiale di stato civile da quest’ultimo delegato.
  4. Unione di fatto o convivenza more uxorio (fra persone di sesso diverso o dello stesso sesso), che può essere regolamentata dalla L. 76/2016 a seguito di dichiarazione anagrafica, oppure libera.
  5. Convivenza rafforzata (fra persone di sesso diverso o dello stesso sesso): si tratta di una convivenza di fatto regolamentata dalla L. 76/2016 e rafforzata dalla sottoscrizione di un contratto di convivenza.

Ma allora cosa possono fare, nella pratica, le coppie italiane, non unite in matrimonio, per ufficializzare la loro unione? E quali sono i diritti che spettano alle parti di una Unione civile ed ai Conviventi di fatto che si registrano all’anagrafe del Comune di residenza, o che sottoscrivono un contratto di convivenza?

Cerchiamo di fare chiarezza.

 

  1. Le Unioni Civili

La disciplina delle Unioni civili si affianca, con le sue peculiarità, a quella della famiglia originaria nonché a quella della convivenza more uxorio, senza appiattirsi a nessuna delle due fattispecie. La formazione sociale che si viene a creare tramite una Unione Civile si presenta quale ulteriore tipologia di famiglia, da tutelarsi in virtù del principio contenuto nell’art. 2 Cost., di garanzia delle formazioni sociali. Nonostante sia fuori di dubbio una tendenziale equiparazione all’istituto del matrimonio, almeno per quanto attiene a diritti e obblighi, le due formazioni divergono necessariamente. Indice di ciò è anzitutto la terminologia utilizzata: i due soggetti di una unione omosessuale non sono definiti giuridicamente “coniugi”, bensì “parti dell’unione civile”, così da sottolinearne la differenza.

Il secondo comma dell’articolo della Legge Cirinnà.prevede che l’Unione Civile possa essere istituita fra:

  • Due persone maggiorenni,
  • Due persone dello stesso sesso,

Mediante dichiarazione di fronte all’Ufficiale  di Stato Civile ed alla presenza di due testimoni.

Solo persone maggiorenni e dello stesso sesso possono, pertanto, costituire una Unione civile, attraverso una dichiarazione resa all’Ufficiale di stato civile e registrata presso l’archivio del Comune, in presenza di due testimoni, certificata da un documento che attesti la costituzione del vincolo; tale certificato deve contenere: i dati anagrafici della coppia, la loro residenza, il regime patrimoniale, nonché l’identità, la residenza e i dati anagrafici dei testimoni.

Per la richiesta di costituzione dell’Unione Civile la coppia può scegliere liberamente il Comune a cui rivolgersi, indipendentemente dalla residenza, e la richiesta va presentata congiuntamente da entrambi i componenti della coppia all’ufficiale dello stato civile.

Si badi, però, che non sempre è possibile costituire un’Unione civile e le cause impeditive sono numerose. Si possono distinguere due categorie di impedimenti all’Unione civile, le prime previste dal comma 4 dell’art. 1, che determinano la nullità dell’Unione e che possono essere impugnate senza limiti di tempo, mentre le seconde sono previste dal comma 7 dell’art. 1, e possono essere inquadrate come cause di annullabilità con termine per l’impugnazione pari ad un anno.

Ai sensi del quarto comma costituiscono cause impeditive alla costituzione dell’Unione civile tra persone dello stesso sesso: a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo  matrimoniale o di un’altra Unione civile; b) l’interdizione di una delle parti per infermità mentale; c) la sussistenza tra le parti dei rapporti previsti dall’articolo 87, primo comma, del Codice Civile (si tratta nello specifico di rapporti di parentela); non possono altresì contrarre Unione civile lo zio e il nipote e la zia e la nipote; d) la condanna definitiva di una parte per omicidio -consumato o anche solo tentato- nei confronti di chi sia coniugato  o  unito  civilmente  con l’altra parte. In presenza di una di tali cause impeditive l’Unione è dichiarata nulla.

I casi di annullabilità previsti dalla Legge (comma 7 art. 1) sono i seguenti: a) violenza: il consenso è stato estorto con violenza; b) timore di eccezionale gravità: il consenso è stato determinato da timore di eccezionale gravità procurato da cause esterne alla parte stessa; c) errore: il consenso è stato per errore sull’identità della persona, ovvero per un errore sulle qualità personali dell’altra parte (la legge stessa stessa precisa che in quest’ultimo caso l’errore deve essere essenziale).

Con la costituzione dell’Unione Civile tra le parti sorgono diritti e doveri: tale istituto estende alle coppie omosessuali la quasi totalità dei diritti e dei doveri previsti per il matrimonio (fatta eccezione per l’obbligo di fedeltà e la possibilità di adozione), incidendo sullo Stato civile della persona. In particolare nasce per le parti l’obbligo di assistenza morale e materiale e quello alla coabitazione; inoltre le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità lavorativa professionale e casalinga, a contribuire ai bisogni comuni. I partner stabiliscono poi un cognome comune, scelto tra uno dei due e concordano l’indirizzo comune di vita familiare. Dal punto di vista economico, matrimonio e Unioni sono equiparati, il che significa che le coppie unite civilmente saranno soggette automaticamente al regime di comunione dei beni, a meno che non indichino una scelta differente (vedremo, invece, che i conviventi di fatto per regolamentare i loro rapporti patrimoniali devono firmare un contratto di convivenza).

Per matrimonio e Unione civile si prevedono ugualmente i diritti ereditari: circa i diritti successori il comma 21 dell’articolo unico della Legge n. 76/2016 prevede che alle parti dell’Unione civile si applichino gli articoli del Codice Civile da 463 a 466 (indegnità), da 536 a 564 (diritti riservati ai legittimari), da 565 a 586 (successioni legittime), da 737 a 751 (collazione) e da 768-bis a 768-octies (patti di famiglia); conseguentemente ogni riferimento al coniuge contenute in queste norme deve essere riferito anche alla parte dell’Unione civile. Dunque, tra gli eredi legittimari va ricompresa, al fianco del coniuge, anche la parte dell’Unione civile; ricordiamo che gli eredi legittimari sono quei soggetti a cui la legge riserva obbligatoriamente una quota di eredità o altri diritti nella successione, e che pertanto sono: il coniuge o la parte dell’Unione civile, i figli, gli ascendenti. Vedremo, invece, che i conviventi di fatto non hanno diritti successori.

Una differenza rispetto all’istituto del matrimonio riguarda, invece, l’ambito del diritto penale: è vero che le disposizioni del Codice Penale riguardanti i coniugi si applicano anche ad ognuna delle parti dell’Unione, ma “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile”, e ciò implica delle conseguenze. Ad esempio, in caso di omicidio non trovano applicazione le aggravanti di pena per l’omicidio commesso dal coniuge; in caso, invece, di sequestro di persona non opera il blocco dei beni che potrebbero essere utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, per l’altra parte di una unione civile. Per le Unioni civili non è, inoltre, prevista la causa di non punibilità concessa al coniuge in caso di falsa testimonianza o favoreggiamento dell’altro coniuge per tutta una serie di reati.

L’obbligo di fedeltà e la possibilità di adozione, sono altre due cause di differenziazione con l’istituto del matrimonio. Il dovere di fedeltà non sussiste per le Unioni civili e per le convivenze more uxorio, con conseguente superamento dell’obbligo regolato dal titolo VI del Codice Civile. Precisiamo, peraltro, che secondo la giurisprudenza ormai consolidata, l’obbligo di fedeltà consiste non solo nell’obbligo previsto per i coniugi di astenersi da rapporti sessuali con altra persona ma anche nell’impegno a non tradire la fiducia reciproca e la violazione di questo obbligo assume rilevanza per la imputazione della responsabilità della separazione. Secondo parte della dottrina si tratta di una scelta meramente politica, fatta con l’intento di non voler equiparare in modo totale l’Unione civile omosessuale al matrimonio eterosessuale, escludendo un elemento di forte analogia con il matrimonio. Altra parte della dottrina, invece, ritiene che la previsione o meno di tale obbligo non muti la sostanza: l’obbligo di fedeltà sarebbe comunque insito nella stessa Unione. Anche sposando questa seconda tesi, tuttavia, tale differenziazione genera comunnque dubbi di diseguaglianza e di disparità di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.

Altra differenza fondamentale tra Unione Civile e matrimonio è costituita dalla possibilità di adozione. Così come i single, in Italia le coppie non sposate non possono adottare, secondo la legge; l’adozione è sempre e comunque vincolata al matrimonio. La normativa italiana non prevede, dunque, l’adozione di bambini da parte di coppie dello stesso sesso. Nella concreta realizzazione della disciplina oggetto di tutela delle coppie omosessuali, si è ritenuto di dover escludere anche la possibilità che il figlio minore di un componente della coppia (nato da fecondazione eterologa o da gestazione per altri) instauri un rapporto di genitorialità con l’altro partner, a seguito di adozione. Sono le cd. stepchild adoption, o adozione del figlio del partner. Si tratta di una tipologia di adozione in casi particolari, che prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore in quanto mira a realizzare l’ interesse del minore stesso. Tuttavia, in diversi casi, nonostante le disposizioni del legislatore, la Giurisprudenza ha considerato preminentemente il superiore interesse del minore, ed i tribunali hanno concesso quantomeno le cd. stepchild adoption.

A partire dal 2016 la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione si è mostrata, poi, sempre più favorevole al tema; la recente ordinanza n. 17100 del 26 giugno 2019 segna una inedita svolta in materia di adozioni di minori, aprendole anche a persone singole nonchè a coppie di fatto.

Altro aspetto interessante da valutare è quello relativo alle cause di scioglimento dell’Unione Civile. Sono anzitutto causa di scioglimento immediato, alla stregua che per il matrimonio (come regolato dall’art. 3 L. 898/1970): la morte o la dichiarazione di morte presunta di una parte.

A queste due prime ipotesi si affiancano solo alcune di quelle previste dall’art. 3 della Legge del 1970; si tratta dunque dei casi in cui l’altra parte dell’Unione civile è stata condannata, con sentenza divenuta definitiva: – all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, per uno o più delitti non colposi, – a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all’articolo 564 del codice penale e per uno dei delitti di cui agli articoli 519, 521, 523 e 524 del codice penale, ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione, – a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno dell’altra parte dell’unione civile o di un figlio, – a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all’articolo 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’articolo 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno dell’altra parte dell’unione civile o di un figlio.

A tali ipotesi se ne aggiungono altre due: l’Unione Civile viene sciolta qualora una delle parti proceda a rettificazione del proprio sesso, e qualora una delle parti abbia manifestato, anche senza consenso dell’altra parte, la sua volontà di scioglimento del rapporto dinanzi all’ufficiale di stato civile. In riferimento a quest’ultima causa di scioglimento ognuno dei partner è libero di sciogliere il legame ma senza passare per la separazione; si parla in questo caso di c.d. divorzio immediato, per il quale non occorre che il giudice accerti il venir meno della comunione materiale e spirituale tra le due parti. I coniugi uniti civilmente, a differenza delle coppie sposate, non dovranno quindi rispettare il periodo di separazione; si tratta di una procedura particolarmente celere che si esplica attraverso due fasi: in una prima fase occorre presentare domanda di scioglimento dell’unione all’ufficiale di stato civile e, successivamente, decorsi tre mesi dalla manifestazione di tale volontà, entrambe le parti o solo una di esse presentano ricorso al Tribunale del luogo di residenza, al fine di ottenere il definitivo scioglimento.

In caso di scioglimento dell’Unione è possibile prevedere l’obbligo, in capo ad una delle parti, di somministrare periodicamente, nei confronti dell’altra parte, un assegno, quando quest’ultima non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive.

Per motivi di completezza espositiva è importante fare riferimento anche al diritto all’assegnazione della casa familiare in caso di scioglimento dell’Unione civile. Occorre ricordare quanto sopra anticipato, ossia che nonostante la legge escluda la possibilità di adozione nonchè le c.d. stepchild adoption, potrebbero ugualmente verificarsi casi in cui la coppia abbia dei figli in comune: in tal caso varranno le stesse regole previste per le coppie unite dal vincolo matrimoniale, con assegnazione della casa al genitore collocatario, che vivrà prevalentemente con la prole. Una precisazione: le parti possono accordarsi affinchè il beneficio dell’assegnazione della casa vada a favore del partner non proprietario, allorquando questi non abbia i mezzi sufficienti per garantirsi un alloggio adeguato.

 

  1. Le convivenze di fatto

A) Le convivenze di fatto regolamentate dalla legge

La legge Cirinnà ha previsto che qualora due persone vogliano vedere la propria unione riconosciuta dallo Stato e godere dei diritti che da questo riconoscimento derivano, devono rendere formale la loro convivenza. Secondo la Legge n. 76 si intendono per conviventi di fatto:

  • due persone maggiorenni,
  • unite in modo stabile da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale,
  • non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.

La convivenza di fatto viene rivolta a persone eterosessuali oppure dello stesso sesso, le quali abbiano deciso di non contrarre matrimonio né di sancire il loro legame attraverso l’Unione Civile ma che sono allo stesso modo meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, rispetto a determinati aspetti della vita.

Come rendere formale la convivenza di fatto? È possibile formalizzare davanti alla legge una convivenza di fatto effettuando una dichiarazione all’anagrafe del Comune di residenza. La convivenza viene attestata attraverso un’autocertificazione in carta libera, nella quale i conviventi dichiarano di convivere allo stesso indirizzo. Il Comune, una volta provveduto agli opportuni accertamenti, rilascerà il certificato di residenza e stato di famiglia.

Ma quali sono i diritti ed i doveri che la legge riconosce alle convivenze di fatto formalizzate?

Quanto ai diritti dei conviventi di fatto, la convivenza di fatto formalizzata pone in essere un nucleo familiare che, nonostante sia diverso da quello matrimoniale, è allo stesso modo meritevole di tutela. Nascono, in particolare, i seguenti diritti e doveri:

  • gli stessi diritti che spettano al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario; la legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce che va agevolata la conservazione dei rapporti familiari del detenuto, favorendo il contatto diretto dell’internato con i propri familiari.
  • il diritto al risarcimento del danno che spetta al coniuge superstite, in caso di decesso del convivente derivante da fatto illecito di un terzo.
  • il diritto di fare visita al proprio partner detenuto in carcere.
  • il diritto reciproco di visita, assistenza e accesso alle informazioni personali in caso di malattia.
  • il diritto di nominare il partner proprio rappresentante in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, o di morte, in relazione alla donazione di organi, alle modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
  • in materia di graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, il diritto ad un titolo di preferenza ai fini dell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
  • il diritto di continuare a vivere nella casa di residenza dopo l’eventuale decesso del convivente proprietario dell’immobile: il convivente superstite può restare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e non oltre i cinque anni; se il convivente superstite abbia figli minori o disabili, ha diritto di continuare a restare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
  • il diritto del convivente di fatto ad essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, se il partner venga dichiarato interdetto, inabilitato o beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
  • il diritto del convivente, nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, di succedergli nel contratto.
  • il diritto del convivente di partecipare alla gestione e agli utili dell’impresa familiare del partner, nonché ai beni acquistati con questi ultimi e agli incrementi dell’azienda, in proporzione al lavoro prestato.
  • il diritto agli alimenti, in caso di cessazione della convivenza di fatto; il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (e nella misura determinata dall’articolo 438 c.c.).
  • ulteriori diritti -patrimoniali- derivano, come vedremo, dalla decisione dei conviventi di fatto di stipulare contratti di convivenza.

E’ interessante soffermarsi sul fatto che anche per le coppie di fatto la Legge Cirinnà ha stabilito l’obbligo di versare gli alimenti a carico della parte economicamente più debole, in caso di cessazione della convivenza, se in presenza di determinate condizioni, vale a dire se versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al suo mantenimento. L’art. 1 comma 65 L. n. 76/2016 recita: “In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (…)”. Gli alimenti non spettano a tempo indeterminato ma vengono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. Vedremo, invece, che per le coppie conviventi il giudice potrà condannare al versamento del mantenimento qualora abbiano sottoscritto contratto di convivenza e ciò sia previsto nel contratto stesso: più precisamente nel contratto di convivenza la coppia si potrà accordare sull’ammontare del mantenimento nonché sulle modalità di pagamento, se a rate o in un’unica soluzione, sulla durata, se per un periodo proporzionale o pari a quello della durata della convivenza, e sulle modalità di pagamento.

Quanto ai doveri reciproci, invece, i conviventi di fatto per la natura stessa del rapporto non assumono alcun obbligo giuridico reciproco, a differenza di quanto avviene per il matrimonio o l’Unione civile.

Come possiamo vedere la convivenza di fatto, regolamentata, assicura una serie di tutele se pur limitate rispetto a quelle che l’ordinamento riserva ai coniugi. Quali sono i diritti che, invece, non sono riconosciuti ai conviventi?

In caso di morte del convivente, il superstite non rientra tra gli eredi legittimi (come il coniuge o la parte di una Unione civile superstite), ma potrà essere nominato erede solo in presenza di un testamento in suo favore (ma si badi bene, solo per la quota disponibile fatti salvi i diritti degli eventuali eredi legittimari). Inoltre il convivente superstite non ha diritto a percepire il Tfr – trattamento di fine rapporto- e la pensione di reversibilità del convivente.

La cancellazione della Convivenza di fatto, ovverosia lo scioglimento della convivenza, avviene:

  • in caso di cessazione della coabitazione,
  • in caso di matrimonio o di Unione civile,
  • su richiesta dell’interessato nel caso vengano meno i legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale (in tal caso è necessario che uno dei conviventi -o entrambi- presenti la richiesta di scioglimento della convivenza di fatto).

 

B) Le convivenze di fatto non regolamentate dalla legge

I conviventi di fatto non hanno, si badi bene, alcun obbligo di presentare l’autocertificazione che formalizzi la loro convivenza. In Italia, difatti, diverse coppie hanno scelto di non rendere ufficiale la loro unione. In caso di mancata registrazione presso l’anagrafe, anche quando il rapporto sia stabile e duraturo, i due conviventi non godono dei diritti propri delle convivenze di fatto formalmente registrate, previsti dalla legge Cirinnà.

 

4- Problematiche connesse alla fine della convivenza

 

E’ possibile ottenere il rimborso delle spese sostenute per la convivenza?

Nel momento in cui la coppia decide di separarsi, di frequente ci si chiede che cosa accada rispetto a quello che i conviventi hanno speso, per l’altro, durante il rapporto; in particolare, ci si domanda se si possa procedere al rimborso delle spese. La risposta è semplice se si considera quanto segue: il rapporto di convivenza, sia esso formalizzato o meno, è caratterizzato da una piena condivisione d’intenti, tra cui anche la necessità di affrontare insieme le spese della vita quotidiana. Pertanto, è naturale che entrambi i conviventi investano il proprio denaro in beni o servizi di esigenza comune. Per questa ragione, le spese ordinarie, che la coppia ha affrontato in pendenza della convivenza, non possono essere rimborsate, essendo state espressione dell’adempimento di un’obbligazione naturale. Ciò anche qualora uno degli ex conviventi si sia caricato maggiormente delle spese. L’opinione giurisprudenziale maggioritaria ritiene che al fine di valutare se le spese affrontate durante una convivenza siano o meno ripetibili – ossia sia possibile chiederne la restituzione-, occorre giudicare se le stesse rientrino in quelle spese ordinarie, naturali e conseguenziali al rapporto di convivenza, considerando le condizioni patrimoniali e sociali della famiglia di fatto; se gli importi superano, invece, il limite della proporzionalità e dell’adeguatezza, classificandosi alla stregua di spese straordinarie, il rimborso sarà dovuto.

 

Che cosa è possibile fare se l’ex convivente non vuole andarsene da casa? 

La legge Cirinnà ha disciplinato in modo espresso i diritti del convivente sulla casa di comune abitazione in caso di morte dell’altro convivente, tuttavia nulla ha previsto per l’ipotesi di cessazione della convivenza. Torna utile, pertanto, richiamarsi alla giurisprudenza più recente della Cassazione. Risulta inopportuno procedere ad allontanare il convivente in modo violento o clandestino (tramite ad esempio il cambio delle serrature), in quanto ciò potrebbe legittimare (secondo la tesi sostenuta dalla Corte) un’azione di spoglio da parte del convivente estromesso: ai senso dell’art. 1168 del Codice Civile essa costituisce un rimedio atto a garantire una pronta tutela giudiziaria al possessore che venga privato violentemente o occultamente della disponibilità di una cosa. Difatti al convivente, che godeva con il partner proprietario dell’immobile, è attribuibile una posizione riconducibile alla detenzione autonoma caratterizzata dalla stabilità della relazione familiare, che determina, sulla casa di abitazione ove si svolge la vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio. Ciò non toglie che, ove il rapporto di convivenza sia cessato, il convivente proprietario dell’abitazione abbia il pieno diritto di allontanare da casa l’ex compagno. Ma in che modo? E’ senz’altro condivisibile la tesi secondo cui va esperita un’azione di rilascio -o di restituzione- del bene, tesa ad ottenere la riconsegna della casa (artt. 561 e seguenti c.c.).

 

  1. Il contratto di convivenza

Alla stregua della registrazione all’anagrafe, i conviventi non sono obbligati a stipulare il contratto di convivenza, il quale resta una mera possibilità. Si tratta di una tipologia di contratto che permette alla coppia di disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e che, pertanto, rappresenta un’ulteriore garanzia per le coppie di fatto. Il contratto di convivenza, ex art. 1 comma 51 della L. n. 76 del 2016, deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attesti la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Le principali disposizioni sui rapporti patrimoniali sono contenute nei commi 50-64 dell’articolo della Legge: segnatamente il comma 50 dispone che “i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza”; l’importanza di tale previsione è evidente se si considera che essa consente per la prima volta di valicare l’antica convinzione secondo cui le prestazioni del convivente erano solo occasionali e, per l’effetto, qualificabili come obbligazioni naturali (obblighi non vincolanti, morali o sociali, in cui il pagamento avviene spontaneamente da parte del debitore).

Ma, dunque, quali aspetti patrimoniali della convivenza è possibile decidere con i contratti di convivenza?  

Per quanto concerne il contenuto del contratto, esso viene delineato al comma 53 il quale dispone che esso “può contenere: a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”. I tre requisiti di cui alle lettere a), b), c) costituiscono il contenuto tipico – necessario, previsto dalla legge- del contratto, il confine all’autonomia privata dei conviventi. Il contratto di convivenza può, dunque, contenere indicazioni relative al luogo di residenza dei conviventi, alle loro modalità di contribuzione alle spese necessarie della vita in comune, il che deve avvenire “in relazione alle sostanze di ciascuno”, fino persino all’eventuale regime patrimoniale; peraltro il regime patrimoniale scelto, comunione o separazione dei beni, può in ogni caso essere cambiato dai conviventi in qualsiasi momento.

Ai sensi dell’art. 1 comma 56 Legge n. 76 il contratto non può essere sottoposto a termine o condizione (non può essere rescisso al verificarsi di un evento particolare o al termine di un certo periodo di tempo). Sono, tuttavia, da ritenersi ammissibili le clausole che riguardano: le pattuizioni e gli accordi riguardanti i figli, quelle che prevedono che in caso di malattia o qualora venisse meno la capacità di intendere e volere, il partner ha la facoltà di assistenza e di visita, le clausole con cui il convivente può designare l’altro, nel caso di sopravvenuta incapacità di intendere e volere, come suo rappresentante con pieni poteri o limitati, ed infine clausole che prevedono la designazione del proprio partner quale amministratore di sostegno.

Ad ogni modo, nonostante la possibilità di inserimento di tali clausole, occorre rilevare come il ricorso allo strumento del contratto di convivenza non consenta di ottenere una disciplina completa dei rapporti di convivenza, in quanto non coinvolge nè rapporti personali né quelli successori fra le due parti, previsti e regolati, invece, in caso di matrimonio e Unione civile. Vero è che parte della dottrina ha cercato di approfondire la questione sulla possibilità di inserire all’interno del contratto di convivenza alcune norme che regolino il momento della cessazione della convivenza, ma, tuttavia, ha incontrato molti ostacoli. Basti pensare che l’art. 458 del Codice Civile vieta categoricamente, dichiarandola nulla, “ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione”. Secondo alcuni lo stesso comma 56 dell’art.1 della Legge n. 76 è ostativo in tal senso, dal momento che preclude alle parti la possibilità di inserire condizioni nel contratto che trovino attuazione nel caso in cui questo si sciolga e cessi il rapporto di convivenza. Altri invece, tentano di aggirare il limite posto dal comma 56 sostenendo che tali pattuizioni sono lecite in quanto non sono classificabili come condizioni: se ciò fosse possibile si tratterebbe di una vera e propria novità rispetto alle previgenti regole sulla convivenza more uxorio, che accrescerebbe di molto la tutela giuridica nei confronti dei conviventi.

E’ vero però che, tramite questo contratto i coniugi possono quantomeno stabilire il pagamento di una somma di denaro, a periodi o in un’unica soluzione, a tutela del soggetto economicamente più debole. La coppia si può, cioè, accordare su un mantenimento, sull’ammontare dello stesso nonché sulle modalità di pagamento e sulla durata. Si tratta di un mantenimento che si può equiparare a quello previsto per le coppie sposate che scatta, però, ove previsto di comune accordo dai partner; l’obbligo di versare il mantenimento durerà più anni, quanto più lungo è stato il periodo nel quale i due soggetti convivevano, mentre la misura degli alimenti va determinata in modo proporzionale al bisogno di chi li riceve e alle condizioni economiche di chi li deve somministrare.

E’ altresì vero che, a prescindere da una pattuizione tra le parti, la stessa Legge Cirinnà provvede (comma 65), per le convivenze di fatto regolamentate, al  riconoscimento dell’obbligazione alimentare, a prescindere dalla sottoscrizione o meno un contratto di convivenza, che tuteli le aspettative patrimoniali del soggetto che versi in stato di bisogno economico in caso di scioglimento del rapporto di convivenza.

Veniamo ora ad elencare i casi di nullità del contratto di convivenza. La nullità è prevista, in ogni caso:

  • In presenza di un vincolo matrimoniale, di un’Unione civile o di altro contratto di convivenza.
  • Quando il contratto sia concluso da persone che non hanno conseguito la maggiore età o da persone vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
  • Quando una delle parti sia interdetta giudizialmente.
  • In caso di condanna per il delitto di omicidio -consumato o tentato- del coniuge o parte dell’Unione civile del partner.

Al di là dei casi in cui viene considerato nullo il contratto di convivenza, come qualsiasi altro contratto, può essere risolto. Vediamo dunque i casi di risoluzione del contratto di convivenza: il comma 59 dell’art.1 della L. n. 76 indica:

a) accordo delle parti,

b) recesso unilaterale, di uno dei due conviventi,

c) matrimonio o Unione civile tra i conviventi o tra un convivente e altro soggetto,

d) morte di uno dei contraenti.

Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione.  Nel caso, poi, in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione. Si ricordi, infine, che per il disposto del comma 65 dell’art.1 della predetta legge, la cessazione della convivenza di fatto (che vi sia o meno un contratto di convivenza) determina a carico dell’ex convivente l’obbligo degli alimenti a favore dell’altro che si trovi in stato di bisogno.

 

6) Le nuove famiglie e la tutela contro i maltrattamenti

Un tema molto interessante, con riguardo alla nascita delle c.d. nuove famiglie, è sicuramente la tutela ad esse apportata dal Codice Penale, per quanto riguarda il delitto di cui all’art. 572 c.p., i “Maltrattamenti contro famigliari e conviventi”. Con la Legge 1 ottobre 2012, n. 172 è stata assicurata tutela penale non solo ai componenti della famiglia naturale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza: la novella ha esteso l’area della punibilità del reato, modificando la rubrica dell’art. 572 c.p., che prima recitava “maltrattamenti in famiglia e contro fanciulli” ed includendo nella disposizione i parenti conviventi (la famiglia allargata), ma anche il convivente more uxorio e comunque le persone conviventi all’interno di uno stesso nucleo familiare ancorché non costituito con il matrimonio.

In giurisprudenza è sempre stato molto chiaro, anche prima delle modifiche introdotte nel testo e nella rubrica dell’art. 572 c.p., che agli effetti della configurazione del delitto di maltrattamenti deve intendersi come famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo; pertanto il delitto di maltrattamenti si consuma anche tra persone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio delle relazioni coniugali. Ricordiamo, difatti, che per la giurisprudenza (Cass. pen. n. 22915/2013) “sono certamente da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo”.

Perfino l’elemento del convivere è stato superato dalla Giurisprudenza, ammettendosi i maltrattamenti tra coniugi separati (si veda Cass. pen. n. 25498/17, Cass. pen. n. 3356/17 e Cass. pen. n. 3087/17), o tra genitori anche se non più conviventi  a condizione che la persona non più convivente conservi con l’altro genitore una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione: “E’ configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione.” (Cass. pen. n. 37628/2019.)

Tuttavia bisogna segnalare che, in assenza di matrimonio o di figli, la giurisprudenza è tutt’ora ferma sull’assunto che il delitto di maltrattamenti in famiglia sia configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata: “Nel caso di “convivenza more uxorio”, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori.” (Cass. pen. n. 10222/2019). In questo caso, dunque, le azioni violente o persecutorie compiute dopo la cessazione della convivenza, potranno al massimo configurare il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., il c.d. stalking.

 

In conclusione, dunque, rispetto a quanto avveniva in passato, grazie all’introduzione della Legge n. 76 del 2016 la convivenza è stata regolamentata, e l’ordinamento prevede anche la possibilità, per le coppie omosessuali, di unirsi civilmente. La novità normativa porta con sé alcuni diritti e doveri che rendono tali rapporti meno liberi. E’ pur vero, poi, che ai fini dello scioglimento delle convivenze nonché delle Unioni civili è previsto un iter meno complesso di quello della separazione e del divorzio ma, comunque sia, non sarà possibile chiudere la relazione senza doverne affrontare le conseguenze.

 

Se desiderate maggiori informazioni potete contattarci al 051 – 235270, oppure via mail, all’indirizzo segreteria@studiolegalerolli.it


1. Fratini, Compendio di diritto civile, NEL DIRITTO EDITORE

2. Salvestroni, Nozioni generali di diritto civile, GIUFFÈ

3. Sent. n. 1041/1966 C. Cass.

4. Sent. n. 138/2010 C. Cost.

5. L. 20 maggio 2016, n. 76. “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”.

6. Ordinanza n. 17100/2019 C. Cass.

7. L. 1 dicembre 1970, n. 898, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”

8. Guida pratica ai contratti di convivenza a cura di Matteo Santini, 2017, Maggioli Editore

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